CONVIVENZA FELINA
L’abitudine a convivere con animali domestici, come gatti, cani e piccoli roditori, è molto diffusa nei paesi maggiormente industrializzati. Ciò ha reso frequente l’osservazione di soggetti, sia giovani sia adulti, con reazioni allergiche suscitate dagli allergeni del gatto.
I sintomi sono costituiti da crisi asmatiche, anche intense, accompagnate da starnuti a raffica e lacrimazione, caratterizzati da rapida insorgenza quando il paziente entra in un ambiente in cui è presente l’allergene. Considerata dapprima come un fatto curioso, tale allergia si è situata al secondo posto, dopo quella agli acari, fra le cause ambientali, non stagionali, responsabili di asma e riniti croniche.
Sono più frequenti le sensibilizzazioni allergiche al gatto, piuttosto che al cane, in conseguenza della diversa permanenza in ambiente domestico e alla maggiore allergenicità delle proteine liberate dal gatto. Tra esse viene considerata come “principale” quella nota con la sigla “Fed d 1”, (Felis domesticus) che viene prodotta dalle ghiandole sebacee, da quelle salivari e da cellule epiteliali (forfora). La regione facciale del gatto costituisce l’area di maggiore produzione di proteine il cui contatto espone ad un’elevata presenza di fattori sensibilizzanti.
Una caratteristica importante del “Fed d 1” è la straordinaria resistenza ad alte temperature tanto che l’esposizione per 60 minuti a 140°C comporta solo una parziale denaturazione. Le ridotte dimensioni e l’estrema volatilità concorrono, inoltre, a spiegarne la diffusione ubiquitaria, anche in ambienti in cui il gatto è stato allontanato da tempo. Si pensi che occorrono 12-16 settimane per ridurre significativamente i livelli di allergeni dopo l’allontanamento del gatto e che se ne riscontrano tracce ancora dopo 2-3 anni.
Divani, letti, tappeti, moquette e mobili imbottiti ove essi si depositano rappresentano veri e propri serbatoi che li liberano nell’aria quando vengono toccati.
E’ stato dimostrato che gli abiti di chi convive con gatti sono veicolo di diffusione di tali allergeni negli ambienti più disparati, come potrebbero essere asili o scuole, in cui il gatto non è mai entrato. Le conseguenze cliniche sono intuibili quando la quantità inalata supera la soglia di tollerabilità di un soggetto sensibilizzato.
L’allergene maggiore è condiviso anche da leone, tigre, leopardo, puma; questo spiega l’insorgenza di sintomi in allergici al circo o allo zoo dove vengono ospitati i “grandi felini”.
Nell’ambito della stessa specie la produzione di allergene può variare a seconda della razza: così mentre il siamese ne ha il primato, il gatto nero può prendersi una rivincita in quanto statisticamente è meno sensibilizzante. Tale allergia è molto diffusa e si manifesta nel corso di tutto l’anno, con sintomi che si accentuano in ambienti chiusi.
Il paziente spesso intuisce il rapporto tra i suoi disturbi e la presenza del gatto, ma esita a trarne le conseguenze per il legame affettivo con l’animale adattandosi a convivere con sintomi cronici. Spesso è una malattia che compare in soggetti geneticamente predisposti e provenienti da famiglie con storia di allergia già presente.
E’ buona norma, ai primi sospetti, sottoporsi a test diagnostici allergologici che forniscano risposte specifiche ed attendibili.
In caso di positività, l’attuare dei seri metodi di prevenzione per ridurre al minimo l’esposizione ad allergeni ambientali, associati ad una terapia appropriata, migliora lo stato di salute, lasciando, solo come ultima drastica soluzione, il sacrificio di allontanare l’animale.